L’ortopedico Marco Maria Dolfin: «Faccio il chirurgo e sfido la paralisi»

L’ortopedico Marco Maria Dolfin: «Faccio il chirurgo e sfido la paralisi»

di Carla Massi
Un’auto contromano ha mandato in pezzi la sua vita. Ma lui, piano piano, con tenacia, forza, coraggio e voglia di vincere, è riuscito a rimetterla (quasi) a posto. Le ferite sono rimaste e le gambe non sono più in grado di camminare. Le braccia e le mani, potenti ed energiche, però, riescono ad abbracciare la moglie Samanta, i figli gemelli Mattia e Lorenzo e a vincere gare di nuoto paralimpico. Riescono anche ad operare da chirurgo ortopedico all’ospedale San Giovanni Bosco di Torino. Grazie a uno strumento che lo fa stare in piedi, l’esoscheletro, e gli permette di intervenire liberamente.

Marco Maria Dolfin, 37 anni, ha appena ricevuto il premio “Fair Play Menarini”, il riconoscimento che da ventidue anni viene assegnato ad atleti che si sono distinti per i loro messaggi di solidarietà, rispetto verso l’avversario e “pulizia”.



Ci è salito con la sua carrozzina sul palco a Castiglion Fiorentino il dottore-campione ma sembrava che venisse avanti a grandi passi. Quelli che ha fatto per salvare il salvabile dopo che l’incidente in moto gli stava per frantumare il futuro. Pochi giorni dopo il matrimonio e all’inizio del lavoro in ospedale.

Che cosa è il fair play per Marco Dolfin?
«Questo premio è per la mia vita sportiva, quella che mi permette di tirar fuori la voglia intima che ho di competere. Voglia che ho sempre avuto ma che dall’11 ottobre 2011, giorno dell’incidente, è diventata sempre più grande. Fair play per me è gareggiare in modo pulito».

Lei ha partecipato a Rio alle Paralimpiadi, come è andata?
«Ho “vinto” la medaglia di legno nei cento rana. Sono arrivato quarto, purtroppo! Quindi, come sempre, non mi posso rilassare. Devo allenarmi ancora tanto. Mi presenterò agli Europei di Dublino ad agosto con braccia e fiato al meglio».

È stato soprannominato il “dottore che non si arrende”...
«Sono Marco che non si arrende. Dopo lo schianto, da ortopedico, mi resi subito conto che non avrei più ricominciato a camminare. Mi aspettava la carrozzina. Non potevo alzare le mani allora e non posso ora».

Ora che, oltre sua moglie, ci sono anche i gemellini di quattro anni?
«Certo. La resa non mi è mai appartenuta. L’ho dimostrato subito. Come ho potuto, ho cercato di ricucire i brandelli di vita e riprendere una sorta di normalità».
Ci spiega?
«Prima di tutto, tanta riabilitazione. Solo quella poteva permettermi di riguadagnare una parte dell’autonomia che avevo perso. Avevo studiato per fare il medico e volevo rimettere il camice. Volevo entrare di nuovo in sala operatoria».
Mai un momento in cui avrebbe voluto mollare?
«Ce ne sono stati tanti. Ma con mia moglie, che è infermiera, siamo sempre riusciti a superare anche gli ostacoli più alti. Consapevoli che nulla sarebbe stato più come prima. Ma, come prima, volevamo andare avanti. Nonostante tutto».

Nonostante?
«Il sapere che la vita quotidiana sarebbe stata scandita da tempi diversi, progetti diversi. Organizzazione diversa del quotidiano. Dai tempi per vestirsi, al tragitto in macchina da casa al lavoro, alle vacanze con la famiglia».
Come convive con quel macchinario che le permette di operare in piedi come i suoi colleghi?
«È un esoscheletro. Una sorta di carrozzina che si eleva e mi consente di stare dritto. In totale autonomia senza dover chiedere aiuto. Le ruote mi fanno spostare. Le braccia e le mani sono libere di muoversi».
Una domanda che le avranno fatto in tanti: qual è la reazione dei pazienti quando la incontrano per la prima volta?
«Pochi minuti di incertezza e di perplessità e poi passa tutto. Diventiamo subito medico e paziente senza che nulla ostacoli il nostro rapporto».

Quindi, ha operato anche pazienti che hanno avuto un incidente simile al suo?
«A un ortopedico capita spesso di affrontare interventi dopo incidenti stradali anche molto gravi. Io ho imparato a pensare solo al paziente e all’intervento. A volte la mia condizione aiuta quando parlo con il malato».
Come opera con questo strumento che l’aiuta a muoversi? Ha mai pensato di essere molto penalizzato nel lavoro?
«Mai. Lo confesso, non l’ho mai pensato. Quando, un anno dopo l’incidente, sono tornato in sala operatoria non mi sembrava che tutto quel tempo fosse passato. Mi sentivo a mio agio. Avevo partecipato alla costruzione di questa carrozzina elettronica verticalizzabile».
Mai avuto paura?
«Non me la posso permettere. La paura ferma, crea gli ostacoli che non ci sono. E io, di ostacoli, ne devo già superare tanti».
E poi c’è il nuoto. Anche in questo caso ha puntato al massimo. Per la sua voglia di competere che non l’abbandona?
«La riabilitazione mi ha fatto lavorare molto in piscina. Sapevo che l’attività fisica era la strada per recuperare al meglio le mie possibilità. Mi allenavo in vasca ma ero convinto che con il ping pong avrei fatto grandi cose».
Invece?
«Invece ero una schiappa, perdevo sempre. Così, mi sono concentrato sul nuoto. E sono arrivato fino a Rio. Dove ho agguantato solo un quarto posto. Ma non è finita. Ci sono ancora tante gare che mi aspettano».
Quanto si sente diverso da noi che ci lamentiamo anche solo per un mal di testa?
«Per niente. Sono solo un uomo che, spaventato dal vedere la sua vita in pezzi, si è messo lì e si è rimboccato le maniche. Mi raccomando, non chiamatemi eroe».
Carla Massi
Ultimo aggiornamento: Venerdì 27 Luglio 2018, 20:12
© RIPRODUZIONE RISERVATA